50. Sentenza 11 luglio 1957 della II Corte Civile nella causa Martinoli contro Martinoli.
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Regeste
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Versteigerung von Erbschaftsgrundstücken unter den Miterben allein und Erbteilungsvertrag.
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2. Die freiwillige Versteigerung unter Miterben allein braucht jedenfalls dann nicht öffentlich beurkundet zu werden, wenn sie im Rahmen einer einem eigentlichen Erbteilungsvertrage gleichzuachtenden Vereinbarung stattfindet. In diesen Grenzen genügt die einfache Schriftform, die für den wenn auch unbewegliches Vermögen betreffenden Erbteilungsvertrag ausreicht, auch für die freiwillige Versteigerung unter Miterben allein (Erw. 3).
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3. Unzulässige Vereinbarung einer Konventionalstrafe oder wenigstens Ermässigung ihres Betrages als übermässig? (Erw. 4 und 5).
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Sachverhalt
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A.- Le parti in causa sono gli unici eredi legittimi dei loro comuni genitori e di una sorella premorta. Su proposta del fratello dott. Martino Martinoli, i coeredi convenivano di formare con i beni della successione quattro lotti da licitare tra essi soli. Incaricato di preparare il capitolato d'asta, il notaio Gianluigi Buetti ne allestiva un progetto che reca la data del 15 luglio 1953. A stregua del medesimo, tutti i beni ereditari erano riuniti in quattro lotti da licitare separatamente; l'asta doveva essere diretta dall'avv. Buetti "nella sua qualità di notaio pubblico"; i coeredi che intendevano offrire all'asta dovevano prestare una garanzia in contanti; tutti gli eredi si obbligavano a riconoscere il risultato dell'incanto come base dell'atto di divisione che sarebbe stato steso due mesi dopo l'esperimento d'asta nelle forme del pubblico istrumento. Era inoltre precisato che se un coerede si fosse rifiutato di firmare l'atto di divisione o avesse reso impossibile il perfezionamento della divisione medesima per non "essere in possesso delle necessarie liquidità a tacitazione dei rimanenti coeredi, il deposito effettuato a titolo di garanzia sarebbe decaduto, quale pena di recesso, a favore di tutti gli eredi in parti eguali".
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Non appena detto progetto di capitolato fu approvato da tutti i coeredi, il notaio Buetti invitò questi a presentarsi a Dongio il 19 luglio per l'esperimento d'asta. Tutti i coeredi si presentarono il giorno convenuto, personalmente o per il tramite di loro mandatari.
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Prima di iniziare l'incanto, il notaio dava lettura del capitolato d'asta. Rispetto al progetto del 15 luglio, questo precisava il prezzo di base dei singoli lotti e l'aliquota del deposito di garanzia (10 per cento dei prezzi di base). Inoltre, la clausola relativa alla decadenza della garanzia era stata modificata parzialmente nel senso che l'inadempimento di un coerede non avrebbe avuto per effetto la nullità dell'asta (come era stato detto nel progetto) bensì la citazione dell'inadempiente in giudizio "per il riconoscimento della validità dell'asta". Per il rimanente, i coeredi si obbligavano - in virtù di una nuova clausola - "a dare la loro firma all'atto divisionale che verrà allestito dal notaio Buetti G. L. conformemente alle risultanze del verbale d'incanto che viene firmato, approvato e accettato da tutti i coeredi. Con la condanna spontanea di ogni eccezione".
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Tutti i presenti approvarono e firmarono il capitolato d'asta definitivo quale era stato loro letto. Il notaio procedeva allora all'incanto, assegnando dopo le tre consuete chiamate i lotti 1 e 3 a Daria Martinoli per il prezzo di 50 600 fr. rispettivamente 17 800 fr., il lotto 2 a Terenzio Martinoli per 32 700 fr. e il lotto 4 a Rosa-Lina Martinoli per 55 300 fr. Martino Martinoli, avendo fatto offerte per tutti e quattro i lotti, aveva prestato una garanzia di 6100 fr., pari al 10 per cento del prezzo complessivo di base (61 000 fr.).
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Sull'esito dell'incanto, il notaio Buetti stendeva - in forma semplice anzichè nelle forme dell'atto pubblico come prescrive il diritto ticinese - un verbale. Previa lettura da parte del notaio, esso fu sottoscritto da tutti i coeredi presenti. Martino Martinoli firmò in nome suo e della sorella Eva Cima-Martinoli, da lui rappresentata.
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Conformemente alle disposizioni del capitolato d'asta, il notaio convocava le parti a Dongio per il 18 settembre affinchè firmassero l'atto notarile di divisione e pagassero il prezzo d'aggiudicazione dei lotti. Il dott. Martino Martinoli non si presentò, con il risultato che l'atto di divisione non potè essere concluso. Fondandosi sulla clausola relativa alla "pena di recesso", il notaio gli comunicò, il giorno successivo, che il suo deposito di 6100 fr. sarebbe stato ripartito tra tutti gli eredi in parti eguali e che i coeredi si riservavano "di iniziare tutte quelle pratiche giudiziarie che meglio riterranno del caso".
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Siccome reagì contestando la validità dell'asta, i coeredi convennero Martino Martinoli e la sorella da lui rappresentata in giudizio davanti al pretore del Distretto di Blenio.
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B.- Con sentenza del 14 luglio 1956, il pretore accolse le conclusioni degli attori entro i limiti seguenti: riconosciuta la validità dell'asta volontaria esperita il 19 luglio 1953, era ordinata l'iscrizione dei beni aggiudicati nel registro fondiario al nome dei loro aggiudicatari; questi dovevano versare a Martino Martinoli, per sè e quale cessionario della quota ereditaria della sorella Eva Cima, la somma co mplessiva di 34 754 fr.; Martino Martinoli doveva pagare ai coeredi non aggiudicatari un interesse del 5 per cento, dal 18 settembre 1953, sulla quota di 17 377 fr. spettante a ciascuno di essi; il deposito del convenuto, di 6100 fr., era passato in proprietà di tutti i coeredi.
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Adito da ambedue le parti, il Tribunale di appello confermava, nei punti essenziali, il giudizio pretoriale, ma accoglieva la domanda del convenuto che nessun interesse legale dovesse essere pagato ai coeredi non aggiudicatari sulla loro quota di 17 377 fr. ciascuno.
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C.- Martino Martinoli ha interposto in tempo utile un ricorso per riforma al Tribunale federale, chiedendo in via principale che la petizione sia integralmente respinta e, in via subordinata, che il deposito di 6100 fr. gli sia rimborsato o che l'ammontare della pena convenzionale sia per lo meno ridotto a una somma più adeguata. A sostegno delle sue conclusioni, egli allega tra l'altro quanto segue: l'asta volontaria esperita il 19 luglio 1953 è nulla per vizio di forma, dal momento che per la trasmissione della proprietà e per l'iscrizione nel registro fondiario è necessario l'atto pubblico (art. 655, 657 e 665 CC). L'art. 634 cp. 2 CC, secondo cui il contratto di divisione richiede per la sua validità solo la forma scritta, sarebbe inapplicabile, giacchè i coeredi Martinoli non "hanno trovato un accordo bonale per l'assegnazione della proprietà loro pertoccata in eredità", contrariamente a quanto era avvenuto nel caso trattato dalla sentenza RU 47 II 251. Determinante sarebbe il principio, affermato dal Tribunale federale nella sentenza RU 63 I 30, che "per l'assegnazione della proprietà a seguito di aggiudicazione ad asta privata è indispensabile la forma dell'atto pubblico". Del resto, i coeredi medesimi hanno previsto nel capitolato d'asta che l'incanto doveva essere presieduto dall'avv. Buetti "nella sua qualità di notaio pubblico". Tutti i commentatori sarebbero del parere che la divisione eseguita mediante asta privata deve risultare da atto pubblico. Pure in quanto atto preliminare della divisione, il verbale d'asta doveva essere steso nella forma autentica (art. 22 cp. 2 CO). Infatti, la divisione che interviene per incanti privati non si distingue per nulla dalla vendita ordinaria e soggiace dunque necessariamente alle norme vigenti per i contratti di compra-vendita (art. 216 CO).
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Nelle loro osservazioni, gli attori hanno concluso per la reiezione integrale del gravame.
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Considerando in diritto:
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Dal tenore di questo accordo - considerato nel suo insieme - si deduce che i coeredi Martinoli non conclusero, il 19 luglio 1953, un contratto di divisione vero e proprio nel senso dell'art. 634 CC e nemmeno conclusero un contratto preliminare di divisione. Il capitolato d'asta non disciplinava infatti in nessun modo l'assegnazione dei beni della successione, segnatamente degli immobili, ai singoli coeredi, ma si limitava a stabilire la procedura che questi s'impegnavano formalmente a seguire per l'esecuzione delle divisioni. Entro questi limiti, il capitolato d'asta rientra manifestamente nell'ambito delle convenzioni di divisione che gli eredi possono prendere nel senso e agli effetti dell'art. 612 CC.
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Che una stipulazione siffatta non esiga la forma autentica, quand'anche includa la divisione di beni immobili, è fuori di dubbio. Dal momento che i coeredi Martinoli si erano impegnati a firmare un atto finale di divisione steso nelle forme notarili, nemmeno l'esperimento d'asta avrebbe tuttavia richiesto, per sè, l'atto pubblico. Se il contratto finale fosse stato allestito e sottoscritto, sarebbe infatti stata adempiuta in ogni modo anche la prescrizione dell'art. 657 cp. 1 CC, secondo cui il contratto traslativo della proprietà richiede per la sua validità l'atto pubblico.
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Così stando le cose, si pone avantutto la questione se il presente gravame non possa essere respinto già per il motivo che le eccezioni sollevate dal ricorrente contro la validità dell'esperimento d'asta volontaria devono essere definite abusive a norma dell'art. 2 CC. In concreto, la risposta a questo interrogativo non può essere che affermativa.
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Nessuna contestazione sarebbe infatti potuta nascere su questo punto, se il ricorrente avesse dato seguito alla convocazione che gli era stata inviata per il 18 settembre 1953 e avesse firmato il previsto contratto notarile. Certo, l'abuso di diritto non può di massima essere opposto a chi si rifiuti di eseguire un contratto perché sarebbe nullo e di nessun effetto per un vizio di forma. Nella fattispecie, è però già stato detto che gli accordi stipulati dagli eredi Martinoli non violavano sicuramente, nel loro complesso, i requisiti di forma richiesti. In realtà, le divisioni ereditarie non poterono essere portate a compimento solo perchè il ricorrente si rifiutò da ultimo di firmare il previsto contratto notarile finale. Dato che aveva assunto, a questo proposito, un preciso impegno contrattuale, in luogo e vece del contratto di divisione notarile può oggi subentrare una sentenza esecutiva a norma dell'art. 963 CC.
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Per evitare questa conseguenza, non giova al ricorrente pretendere che l'atto pubblico sarebbe stato voluto per l'esperimento d'asta dalle parti medesime e che gli accordi stipulati non potrebbero di conseguenza vincolarlo già per questo motivo. Vero è che secondo una clausola del capitolato d'asta le operazioni d'incanto dovevano essere presiedute dall'"avv. Buetti G. L. da Muralto nella sua qualità di pubblico notaio". Ciò è però avvenuto. Se le parti avessero veramente inteso esperire l'asta nelle forme dell'atto pubblico, il notaio Buetti, che non era un profano, lo avrebbe precisato nel capitolato d'asta da lui redatto con una formula chiara. Significativa in merito è la circostanza che quando, nello stesso documento, previde la stesura di un contratto finale di divisione, il notaio Buetti ne specificò la forma, che doveva essere quella appunto "dell'atto notarile".
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Soltanto se il contratto di divisione stesso avesse richiesto per la sua validità la forma dell'atto pubblico, il ricorrente potrebbe pretendere che i noti accordi stipulati nella forma scritta semplice non potevano vincolarlo per un vizio di forma (art. 22 cp. 2 CO). Tuttavia, il Tribunale federale ha già statuito nella sua sentenza RU 47 II 251 sgg. che il contratto di divisione giusta l'art. 634 cp. 2 CC è validamente concluso nella forma scritta semplice quand'anche abbia per oggetto la ripartizione di beni immobili. Quella giurisprudenza deve qui essere confermata. Certo, l'art. 657 cp. 1 CC pone il principio che un contratto traslativo della proprietà fondiaria richiede per la sua validità l'atto pubblico. Occorre tuttavia chiedersi se il contratto di divisione implichi una trasmissione della proprietà nel senso del disposto citato. La risposta a tale questione, posta pure nella sentenza RU 47 II 251 ma lasciata indecisa in quel caso, non può essere che negativa. Come è allora stato esposto, gli art. 657 e 634 CC disciplinano infatti situazioni del tutto diverse. Per gli interessati, la differenza essenziale si manifesta nel fatto che mentre nell'alienazione di fondi a norma dell'art. 657 CC e - per prenderne l'esempio più tipico - nella vendita a stregua dell'art. 216 CO tanto il compratore quanto il venditore sono interamente liberi di trasmettere e di accettare la proprietà immobiliare concludendo o non concludendo il contratto di compra-vendita, nel caso di un contratto di divisione i coeredi già sono proprietari in comune di tutti i beni ereditari per il solo effetto della morte del de cujus e sono tenuti per legge ad accettare le divisioni medesime. Soltanto il modo della divisione dipende dunque, entro certi limiti, dalla libera volontà dei coeredi nel caso dell'art. 634 CC.
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Questa diversa posizione degli interessati giustifica senza dubbio la conclusione che l'atto pubblico, necessario in generale per i contratti traslativi della proprietà veri e propri, non è invece richiesto per dei contratti che come quelli di divisione tendono in primo luogo alla liquidazione di una comunione preesistente. È segnatamente evidente che l'esigenza di proteggere i contraenti dalla conclusione di negozi inconsulti o insufficientemente ponderati non si pone con la medesima urgenza quando è in discussione non già la creazione di un nuovo diritto di proprietà con tutti gli effetti che ne conseguono, bensì solo una specie di consolidamento del diritto di proprietà (per usare un'espressione della sentenza RU 47 II 254) sul capo di uno o più coeredi.
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L'opinione che la forma scritta semplice basti per il contratto di divisione quand'anche la ripartizione includa dei beni immobili è tra l'altro condivisa da TUOR (nota 16 ad art. 634 CC) e da ESCHER (nota 10 ad art. 634 CC). Per ciò che concerne la controversia se il requisito dell'atto pubblico dovesse per lo meno essere mantenuto quale prescrizione d'ordine agli effetti dell'iscrizione nel registro fondiario (cf. TUOR, note 21-24 ad art. 634 CC), basterà qui osservare che pure essa è oggi priva di oggetto. Con decreto del 30 settembre 1947, il Consiglio federale ha infatti modificato l'art. 18 RRF nel senso che in caso di divisione il documento giustificativo da produrre per l'iscrizione della proprietà può consistere anche in "un atto di divisione steso in forma scritta".
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Se si tiene conto di quanto precede, il Tribunale di appello non ha certamente violato il diritto federale quando ha ritenuto che l'invocato art. 22 cp. 2 CO concernente la forma richiesta per le promesse di contrattare non era applicabile. Dal momento che per l'atto di divisione basta la forma scritta semplice, questa era in ogni modo sufficiente anche per il capitolato d'asta.
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La circostanza che le parti non si siano contentate, per il contratto finale di divisione, di tale forma ma abbiano scelto quella dell'atto notarile non giustifica una conclusione diversa. Poichè le parti si erano obbligate a riconoscere il risultato dell'asta e a firmare l'atto notarile di divisione "con la condanna spontanea di ogni eccezione", devesi ammettere che la stipulazione della forma autentica per il contratto finale non doveva costituire se non una condizione contrattuale supplementare (cfr. OSER/SCHÖNENBERGER, nota 5 ad art. 16 CO). Ora, una condizione siffatta "si ha per verificata se il suo adempimento sia stato da una delle parti impedito - come qui è il caso - in urto colla buona fede" (art. 156 CO).
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Nel riassunto dei motivi, quale è stato premesso alla sentenza RU 63 I 30 sgg., è bensì stato affermato, senza limitazioni di sorta, che l'incanto tra coeredi dei beni immobili di una successione conformemente all'art. 612 cp. 3 CC dev'essere documentato nelle forme dell'atto pubblico. Tuttavia, tale enunciazione, troppo generale, non può essere determinante per l'interpretazione del pensiero del Tribunale federale. Occorre piuttosto riferirsi ai fatti allora ritenuti e ai motivi esposti, in funzione di detti fatti, nel testo medesimo della sentenza. Se si prende questa cautela, è facile constatare che il Tribunale federale non ha escluso in modo assoluto, nella sentenza RU 63 I 30, l'ammissibilità della forma scritta semplice per l'asta volontaria esperita tra coeredi. Ciò appare già dalla circostanza che esso si è esplicitamente riferito all'eccezione dell'art. 634 cp. 2 CC concernente i requisiti di forma posti ai contratti di divisione e alla sentenza RU 47 II 251 che aveva sancito detta eccezione, sia pure per escluderne in concreto l'applicabilità a motivo del fatto che il verbale d'incanto non era stato sottoscritto da tutti i coeredi. In realtà, il Tribunale federale ha allora negato ogni valore all'asta tra coeredi esperita senza l'atto pubblico perchè il negozio litigioso non rientrava tra quelli per i quali sono determinanti le sole prescrizioni del diritto delle successioni. Dato che l'incanto era stato ordinato dall'autorità competente, previa la nomina di un rappresentante della comunione ereditaria, e il verbale relativo ai risultati dell'asta, esperita con la collaborazione di un ufficiale preposto alle esecuzioni, non era stato firmato da uno dei due eredi, il Tribunale federale considerò che quel negozio doveva essere definito una vendita fatta nelle forme dell'incanto privato ed esigeva dunque, come tale, l'atto pubblico.
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Su questo punto, la situazione è oggi totalmente diversa. Non solo i fratelli Martinoli hanno tutti firmato il verbale dell'asta privata, ma essi medesimi hanno convenuto, di comune accordo, la licitazione privata limitata ai coeredi, precisando che si obbligavano a riconoscerne i risultati e a firmare, due mesi dopo, un contratto di divisione. Non si può dunque parlare, per ciò che li riguarda, di una vendita avvenuta nelle forme dell'incanto privato giusta le disposizioni del Codice delle obbligazioni, con susseguente liquidazione della comunione ereditaria. In realtà, incanto e liquidazione della comunione ereditaria formano qui un tutto unico voluto e convenuto dai coeredi medesimi nei limiti dell'art. 612 CC.
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Per l'asta eseguita entro questi limiti, l'atto autentico non era necessario, ma bastava la forma scritta. Il Tribunale federale giunge a questa conclusione dopo avere considerato che il capitolato d'asta del 19 luglio 1953 dev'essere parificato, per ciò che concerne i requisiti di forma posti alla sua validità, a un contratto di divisione vero e proprio. Certo, manca in caso d'incanto una preliminare e concorde manifestazione di volontà di tutti i coeredi circa il prezzo d'attribuzione dei beni ereditari e la persona del o dei coeredi ai quali detti beni devono essere assegnati. Tuttavia, tanto nell'una quanto nell'altra fattispecie i coeredi sono concordi nello scegliere una procedura oggettiva intesa a permettere lo scioglimento della comunione ereditaria (attribuzione diretta dei lotti formati in precedenza o incanto dei beni e consecutivo conguaglio), e nel ritenersi vincolati dall'accordo concluso a questo scopo.
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Per infirmare questa conclusione, non giova al ricorrente distinguere tra il capitolato e l'esperimento d'asta e pretendere che l'atto pubblico sarebbe necessario almeno per il secondo. Infatti, l'incanto tra i soli coeredi a stregua dell'art. 612 cp. 3 non può in ogni modo essere trattato, se è eseguito come qui nell'ambito di una convenzione parificabile a un contratto di divisione vero e proprio, alla stregua di una vendita giusta l'art. 216 CO o dell'incanto che ne fa le veci a norma dell'art. 229 CO. Semprechè le condizioni poste dal diritto successorio siano adempiute, esso costituisce in realtà una semplice modalità di ripartizione. Entro questi limiti, l'incanto tra i coeredi non esige certo l'atto pubblico così come non lo esigono il contratto di divisione vero e proprio e la divisione reale.
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L'opinione che, in caso d'incanto tra coeredi a norma dell'art. 612 CC, la trasmissione della proprietà non richieda l'atto pubblico è segnatamente condivisa, nella dottrina, da BECKER, il quale richiama l'analogia con il contratto di divisione (Commentario, nota 11 ad art. 229 CO). L'ammissibilità della forma scritta semplice è invece negata da OSER/SCHÖNENBERGER (Commentario, introduzione agli art. 229-236, CO nota 18). Ma questi autori misconoscono appunto che, quando l'incanto è convenuto di comune accordo e il verbale che ne accerta i risultati è sottoscritto da tutti i coeredi, non si è in presenza di una vendita, bensì di una divisione a norma del diritto successorio. In questa eventualità, solo l'art. 612 cp. 3 CC - c he par la di "vendita agli incanti" senza precisazioni di sorta - può esere determinante.
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Per il rimanente, a torto il ricorrente persiste ad affermare anche in questa sede che il paragrafo 9 del capitolato d'asta, nella misura in cui contemplava il perseguimento giudiziale dei coeredi inadempienti per il riconoscimento della validità dell'asta, sarebbe illegale e inammissibile. Su questo punto, l'affermazione che il pagamento del prezzo di aggiudicazione poteva diventare impossibile a motivo di malattia o di perdite finanziarie appare del tutto inverosimile: basti pensare che detto pagamento doveva intervenire all'atto della firma del contratto di divisione, cioè due mesi appena dopo l'esperimento d'asta. Del resto, scopo essenziale della pena convenzionale - parimente stipulata in quel paragrafo - era precisamente quello di evitare che un coerede potesse rendere illusorio il successo dell'asta mediante offerte inconsiderate, superiori alle sue possibilità.
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Il Tribunale federale pronuncia:
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Il ricorso è respinto. Di conseguenza, la sentenza 6 febbraio 1957 della Camera civile del Tribunale di appello del Cantone Ticino è confermata.
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